Dr. Luigi Ferrajoli: “Il futuro del costituzionalismo”  

Compartimos con ustedes -en su idioma original- la siguiente columna del destacado jurista y académico de la Universidad de Roma III, Dr. Luigi Ferrajoli:

1. L’impotenza e l’inadeguatezza del costituzionalismo odierno – Muoverò dalla domanda con la quale si intitola il libro di Gaetano Azzariti, Può il costituzionalismo moderno sopravvivere?[1]“C’è un futuro (e quale) per il costituzionalismo moderno in epoca globale?”[2]. La risposta di Azzariti è pessimistica. I principi delle nostre costituzioni, egli afferma, sono oggi minacciati, assai più che “dalle trasformazioni interne degli ordinamenti giuridici e politici nazionali”, dai “processi esterni prodotti dalla globalizzazione”, primo tra tutti la “mondializzazione delle economie”[3]. Rispetto agli odierni poteri globali – i poteri politici delle grandi potenze militari e i poteri economici e finanziari transnazionali – non si può “sfuggire al tema – ineludibile ed essenziale per il giurista ‘positivo’ – dell’effettiva forza normativa ascrivibile alle disposizioni costituzionali vigenti”[4]. Se è vero che il ruolo delle costituzioni consiste nella limitazione dei poteri a garanzia dei principi in esse formulati – la pace, l’uguaglianza, la pari dignità di tutte le persone, l’universalismo dei diritti umani –, allora questo ruolo non può essere svolto dalle costituzioni statali, dato che i poteri che contano e dai quali provengono le maggiori aggressioni ai diritti da esse stabiliti si sono dislocati fuori dei confini nazionali.

       Non servono molte parole per mostrare l’inadeguatezza del costituzionalismo nazionale a fronteggiare le sfide che oggi provengono da queste aggressioni globali: le guerre e il pericolo dell’olocausto nucleare; il riscaldamento climatico che, se non arrestato, ha per effetto l’inabitabilità di parti crescenti del nostro pianeta; l’aumento, nel mondo, delle disuguaglianze e delle violazioni massicce dei diritti umani; lo sfruttamento selvaggio del lavoro; il dramma di decine di migliaia di migranti, ciascuno dei quali fugge da una di queste catastrofi. Le politiche nazionali sono vincolate agli spazi ristretti dei territori nazionali e ai tempi brevi delle competizioni elettorali, o peggio dei sondaggi: spazi angusti e tempi brevi che evidentemente impediscono ai governi degli Stati, interessati soprattutto al consenso elettorale, di affrontare le sfide e i problemi globali con politiche alla loro altezza. La democrazia politica odierna è affetta da presentismo e da localismo: non ricorda e rimuove il passato e non si fa carico del futuro, ossia di ciò che accadrà oltre i tempi delle scadenze elettorali e al di là dei confini nazionali.

      A causa dei loro limiti spaziali, i governi nazionali e le loro costituzioni sono d’altra parte oggettivamente impotenti di fronte alle catastrofi planetarie in atto, destinate purtroppo ad aggravarsi. Nessuno Stato, da solo, è in grado di far fronte alle sfide globali. Nessuno Stato aprirà totalmente le sue frontiere se non lo faranno anche gli altri Stati. Nessun governo potrà mai affrontare, da solo, i problemi del riscaldamento climatico, delle disuguaglianze globali, della fame e della sete nel mondo o delle malattie non curate di centinaia di milioni di persone. Nessun paese, e meno che mai quelli dotati di armamenti nucleari, procederà a un disarmo unilaterale. Inoltre, il rapporto tra mercati e Stati, a causa dell’asimmetria tra il carattere globale dei primi e il carattere locale secondi, si è capovolto. Non sono più gli Stati che garantiscono la concorrenza tra le imprese, ma sono le grandi imprese multinazionali che mettono in concorrenza gli Stati privilegiando, per i loro investimenti, i paesi nei quali possono maggiormente sfruttare il lavoro, pagare meno imposte, devastare l’ambiente e corrompere i governi.

        E’ d’altro canto fallito quell’embrione di costituzione del mondo che è formato dalla Carta dell’Onu e dalle tante carte internazionali dei diritti umani. Le ragioni del fallimento dell’Onu sono essenzialmente due. La prima consiste nella contraddittoria conservazione, nella sua Carta statutaria, della sovranità degli Stati. “L’Organizzazione è fondata sul principio della sovrana uguaglianza di tutti i suoi membri”, afferma l’art. 2, n. 1; anche se poi questa uguaglianza è contraddetta dalla posizione di dominio riservata dalla stessa Carta alle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. Tutto il diritto internazionale, tutte le istituzioni e le organizzazioni internazionali sono pertanto modellati sul paradigma dello Stato nazionale sovrano. Sono gli Stati i soli attori e destinatari del diritto internazionale. E’ chiaro che la conservazione della sovranità degli Stati e conseguentemente delle diverse e disuguali cittadinanze statali rende illusori, perché non rigidamente vincolanti, i principi di pace e di uguaglianza e i diritti fondamentali pur stabiliti in tante carte dei diritti umani.

       La seconda ragione del fallimento di queste carte è stata la loro mancata attuazione, non essendo state introdotte le garanzie dei diritti di libertà e dei diritti sociali in esse stabiliti. Diversamente dai diritti patrimoniali, che nascono insieme alle loro garanzie – il credito insieme al debito, la proprietà privata insieme al divieto di turbarne l’esercizio – i diritti fondamentali richiedono tutti leggi di attuazione, che introducano i divieti di lesioni e gli obblighi di prestazioni che ne sono le garanzie. Poco o nulla, invece, è stato fatto in attuazione di queste carte. La sola importante garanzia introdotta è stata l’istituzione della Corte penale internazionale per i crimini contro l’umanità, al cui statuto, tuttavia, non hanno aderito le maggiori potenze. I principi della pace e dell’uguaglianza, i diritti di libertà e i diritti sociali di tutte le persone, promessi nelle tante carte dei diritti, sono perciò rimasti sulla carta, per la grande maggioranza del genere umano, quali promesse non mantenute.

2. Due concezioni opposte della costituzione e del costituzionalismo – Dunque il costituzionalismo non può sopravvivere nelle sue forme odierne, quali ci sono state consegnate dalla nostra tradizione. La domanda che dobbiamo porci, se non vogliamo rassegnarci all’impotenza e alle catastrofi, è allora diversa da quella da cui abbiamo preso le mosse: come il costituzionalismo moderno può sopravvivere?

       Io credo che la risposta razionale a tale domanda è che questa possibilità è una sola: l’espansione del paradigma costituzionale oltre lo Stato, al livello dei poteri globali dal cui esercizio sregolato provengono oggi le principali aggressioni ai beni comuni e ai diritti fondamentali proclamati in tante carte costituzionali e internazionali. Il costituzionalismo, in breve, può sopravvivere solo se si porta all’altezza dei poteri selvaggi, politici ed economici, che ha il compito di limitare a garanzia della pace, dell’uguaglianza, della difesa e della salvaguardia della natura e dei diritti fondamentali di tutti.

       Si pone in proposito una prima questione teorica di fondo, che riguarda il ruolo delle costituzioni e la natura stessa del costituzionalismo. Ci sono infatti due concezioni opposte della costituzione e del costituzionalismo. Secondo una prima concezione, tuttora prevalente nella nostra tradizione, esisterebbe un nesso tra costituzione, popolo e Stato nazionale[5]. Le costituzioni sarebbero possibili, ancor prima che auspicabili, solo se basate sull’esistenza di un popolo e del relativo Stato sovrano. “La parola ‘costituzione’”, scrisse Carl Schmitt, cui risale questa concezione nazionalista e identitaria, “deve essere limitata alla costituzione dello Stato, cioè all’unità politica di un popolo”[6]: essa esprime “l’unità del popolo come totalità politica”[7], in accordo con “l’assioma democratico dell’identità della volontà di tutti i cittadini”[8]. E’ chiaro che tale unità e tale identità a livello internazionale non esistono. Ma in società democratiche – basate sul pluralismo, sul conflitto politico, sulle lotte di classe e sulla “pari dignità sociale” di tutte le differenze, secondo le parole dell’art. 3 della nostra Costituzione – esse non esistono neppure a livello nazionale. Sono infatti concepibili solo sulla base dell’idea schmittiana, autoritaria e illiberale, del demos come entità omogenea, in rapporto di opposizione e di esclusione con gli altri popoli ma anche con quanti, rispetto a questa supposta omogeneità, sono differenti o dissenzienti e perciò virtualmente nemici[9].

       Totalmente opposta è l’idea di costituzione espressa dall’universalismo dei diritti umani stipulati nelle costituzioni del secondo dopoguerra e dal principio di uguaglianza quale è formulato dai due commi dell’art. 3 della Costituzione italiana: la “pari dignità sociale” di tutte le differenze di identità e la riduzione  delle disuguaglianze economiche e materiali. Intese in questo senso, le costituzioni e i principi in esse stabiliti non appartengono, come le leggi ordinarie, a quella che possiamo chiamare la sfera del decidibile e che, in democrazia, è affidata alla volontà popolare e alle sue rappresentanze. Esse sono bensì patti di convivenza pacifica e solidale tra differenti e disuguali, nelle quali viene stipulata la sfera del non decidibile: ciò che nessuna maggioranza può decidere, cioè le limitazioni dei diritti di libertà che sono tutti diritti alla tutela e all’affermazione delle differenze personali, e ciò che nessuna maggioranza può non decidere, cioè la soddisfazione dei diritti sociali che sono tutti diritti alla rimozione o alla riduzione delle disuguaglianze economiche e materiali. Le costituzioni sono perciò legittime e democratiche non perché “volute” dal popolo, ossia da tutti o dalla maggioranza, ma perché garantiscono tutti, anche loro malgrado. Sono anzi tanto più legittime e necessarie quanto maggiori sono le differenze che sono chiamate a tutelare e le disuguaglianze che hanno il compito di ridurre: legittime e necessarie, quindi, ancor più che a livello nazionale, a livello globale, dove maggiori sono le differenze di identità – etniche, linguistiche, religiose, culturali – che le costituzioni hanno il dovere di tutelare e le disuguaglianze economiche e materiali che hanno il dovere di ridurre.

       Per questo tutti i nazionalismi sono gli ostacoli, anziché le basi sociali e culturali del costituzionalismo. Per questo gli Stati sovrani, inventati dalla cultura occidentale insieme alle loro diverse cittadinanze, sono, non diversamente dai mercati globali parimenti insofferenti di limiti e controlli giuridici, i veri nemici del costituzionalismo, del principio di uguaglianza e dei diritti fondamentali: perché tali diritti e le loro garanzie o sono universali, oppure non sono. Per questo le costituzioni democratiche, avendo il compito di garantire il pluralismo politico e il multiculturalismo e, insieme, condizioni di una vita dignitosa a tutti gli esseri umani, sono per loro natura internazionaliste, cioè anti-nazionaliste e antifasciste. La loro logica, espressa dai diritti umani e dal principio di uguaglianza, infatti, non è nazionale ma universale: non a caso ha voluto chiamarsi “universale” la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948.

       A garanzia della convivenza pacifica, dei diritti umani di tutti, della protezione della natura e dei suoi beni vitali e perciò della stessa sopravvivenza dell’umanità, questa concezione universalistica delle costituzioni richiede pertanto l’espansione oltre lo Stato del costituzionalismo rigido. In una quadruplice direzione: verso un costituziona­lismo sovranazionale in aggiunta a quello statale; verso un costituzionalismo di diritto privato, in aggiunta a quello di diritto pubblico edificato solo contro i pubblici poteri e non anche contro i poteri economici privati; verso un costituzionalismo sociale in aggiunta a quello liberale, tramite le garanzie dei diritti sociali; verso un costituzionalismo dei beni fondamentali, dai beni comuni ai farmaci salva-vita e all’alimentazione di base, in aggiunta a quello dei diritti fondamentali. Sono quattro espansioni dettate dalla logica stessa del costituzionalismo, la cui storia è consistita fino ad oggi – e potrà ancora consistere, se vorrà sopravvivere – in un progres­sivo allargamento della sfera dei di­ritti: dai diritti di libertà nelle prime dichiarazioni e nelle costitu­zioni ottocentesche, ai diritti dei lavoratori e ai diritti sociali nelle costituzioni del secolo scorso, fino ai nuovi diritti alla pace, all’ambiente, all’informazione, all’acqua potabile e all’alimentazione oggi rivendicati e non ancora tutti costituzionalizzati. Si è trattato di una storia sociale e politica, prima che teorica, dato che nessuno di questi diritti è ca­lato dall’alto, ma tutti sono stati conquistati da movimenti rivoluzio­nari: le grandi rivoluzioni liberali americana e francese, poi i moti ottocente­schi in Europa per gli statuti, poi la lotta di liberazione antifascista da cui sono nate le odierne costituzioni rigide, infine le lotte operaie, femministe, ecologiste e pacifiste del secolo scorso. Oggi è un nuovo salto di civiltà che le sfide globali impongono al diritto e alla politica. In risposta a tali sfide, e prima ancora in attuazione della sua logica universalistica, il costituzionalismo preso sul serio non potrà che essere, in futuro, un costituzionalismo globale[10]

3. Il costituzionalismo preso sul serio: una costituzione globale come inveramento e attuazione del paradigma costituzionale – Se questo è il costituzionalismo preso sul serio – quello espresso dalla Costituzione italiana e da quella tedesca, basate entrambe sulle garanzie del pluralismo e dell’uguaglianza quale uguale valore delle differenze di identità e quale riduzione delle disuguaglianze materiali – allora la sua espansione al di là dello Stato non è solo un suo allargamento. E’ anche, e ancor prima, il suo inveramento e la sua coerente attuazione, in grado di superare le due contraddizioni interne del costituzionalismo odierno, enormemente aggravatesi con la globalizzazione. La prima contraddizione è tra l’universalismo dei diritti fondamentali stabiliti in tante carte e convenzioni e la cittadinanza quale presupposto delle loro garanzie. La seconda è tra il principio della pace e la sovranità armata degli Stati.

      Il paradigma costituzionale inverato dall’universalizzazione delle sue garanzie, è in primo luogo incompatibile con la cittadinanza, che è l’ultimo accidente di nascita – un diritto ad avere diritti – che differenzia le persone e le garanzie dei loro diritti sulla base del loro status, in palese contraddizione con il principio di uguaglianza. Le persone lasciate affogare nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere i nostri paradisi democratici, l’apartheid mondiale nel quale vivono e muoiono un miliardo di esseri umani, le repressioni violente delle libertà fondamentali in gran parte del pianeta ci dicono che fuori dai confini dell’Occidente i diritti fondamentali appaiono privilegi e le loro proclamazioni, senza il loro carattere indivisibile, decadono a vuota retorica.

      In secondo luogo il paradigma costituzionale stipulato a garanzia della pace è incompatibile con la sovranità degli Stati, in forza della quale le relazioni tra Stati sovrani sono ancora, secondo la raffigurazione offertane dall’intera filosofia politica classica, i rapporti di guerra propri dello stato di natura basati sulla legge del più forte[11]. Oggi questa legge non solo è entrata in contraddizione con tutte le carte internazionali sulla pace e sui diritti umani, ma è diventata più che mai insostenibile a causa di due fenomeni nuovi: l’illimitata potenza distruttiva degli armamenti in possesso degli Stati e la crescente integrazione e l’inevitabile interdipendenza tra tutti i popoli della Terra generate dalla globalizzazione.

       Di qui la necessità di una ridefinizione sia della cittadinanza che della sovranità, logicamente conseguente all’universalismo dei diritti umani e al principio della pace, e perciò l’urgenza di un salto di qualità del costituzionalismo imposta dalle emergenze globali che pesano sul futuro dell’umanità. La cittadinanza, una volta venute meno le esclusioni e le limitazioni alle garanzie dei diritti fondamentali generate dai confini tra gli Stati, cessa di essere una figura distinta dallo status di persona, convertendosi nell’uguale titolarità di tali diritti in capo a tutti gli esseri umani, in accordo con il loro carattere universale[12]. Lo stesso vale per la sovranità. “La sovranità appartiene al popolo”, affermano tuttora molte costituzioni democratiche, inclusa la nostra. Ma questa norma è compatibile con il paradigma costituzionale, che non ammette poteri assoluti, solo se viene intesa in due significati tra loro complementari: nel senso, in negativo, che la sovranità appartiene al popolo e a nessun altro, sicché nessun potere costituito, né assemblea rappresentativa, né presidente eletto possono usurparla; e nel senso, in positivo, che non essendo il popolo un macrosoggetto ma l’insieme di tutti i consociati, la sovranità appartiene a tutti e a ciascuno, identificandosi con l’insieme di quei frammenti di sovranità, cioè di poteri e contropoteri, che sono idiritti fondamentali di cui tutti e ciascuno sono titolari. La sovranità, in breve, è di tutti o, che è lo stesso, non è di nessuno; così come la cittadinanza spetta a tutti o, che è lo stesso, non spetta a nessuno.

      E’ dunque il nesso, che pesa tuttora sulla cultura costituzionalistica odierna, tra Costituzione e Stato nazionale che dobbiamo contestare: non solo perché esso è legato a un fenomeno contingente quale fu la formazione dello Stato moderno, con i relativi dogmi delle sue interne unità, coerenza e completezza; non solo perché oggi il costituzionalismo nazionale non è più all’altezza delle sfide epocali generate dalla globalizzazione e dai poteri globali che minacciano, ancor più dei tradizionali poteri statali, i diritti e i beni fondamentali di tutti. Quel nesso va respinto sul piano teorico perché è in contrasto con l’idea stessa di costituzione espressa dalle costituzioni rigide del secondo dopoguerra. Anche l’idea di “territorio”, comunemente connessa a quella di costituzione, deve d’altro canto essere allargata. “Non si può avere costituzione senza territorio, così come non c’è nomos senza terra”, ha scritto Gaetano Azzariti[13]. Ma cosa impedisce di considerare come territorio di una Costituzione globale la Terra medesima? Del resto, la forza del  carattere formale della teoria del diritto, e perciò della sintassi logica espressa dalla struttura a gradi dei sistemi costituzionali, è che tale struttura – i cui contenuti democratici sono il prodotto delle battaglie civili, politiche e sociali a loro sostegno – è valida per qualunque istituzione politica.

4. Due realismi: il realismo volgare che naturalizza la politica e l’economia e il realismo razionale che si fa carico delle sfide e indica la soluzioni possibili –. Naturalmente nulla consente di essere ottimisti. E’ infatti difficile prevedere se questa espansione del costituzionalismo e della democrazia riuscirà a svilupparsi, oppure se continueranno a prevalere la miopia e l’irresponsabilità dei governi e gli interessi dei grandi poteri economici globali. Occorre tuttavia distinguere ciò che è improbabile per la miopia della politica e per gli ostacoli opposti dai corposi interessi privati, da ciò che è impossibile sul piano teorico: per non deresponsabilizzare la politica e per non legittimare come inevitabile ciò che invece è frutto della volontà dei potenti.

       E’ questa confusione che viene invece assai spesso operata e che consente, in nome del realismo politico, di squalificare come utopistica e irrealizzabile la prospettiva qui sostenuta della possibile espansione oltre lo Stato del paradigma costituzionale. Vengo perciò alla seconda questione teorica di fondo – più esattamente una questione di carattere meta-teorico ed epistemologico – che a mio parere s’impone alla riflessione della filosofia politica, della scienza giuridica e soprattutto delle discipline costituzionalistiche: il significato medesimo del realismo politico e giuridico, che da qualche decennio pesa, come una sorta di ossessione, sugli studi di teoria politica e di teoria del diritto, paralizzandone le capacità di innovazione teorica e di progettazione politica.

       Penso che dobbiamo distinguere due tipi opposti di realismo. C’è un realismo che chiamerò realismo volgare, consistente nella naturalizzazione della realtà sociale, del diritto e della politica attraverso la ben nota tesi che “non ci sono alternative” a quanto di fatto accade. E’ un realismo ideologico che produce  una sorta di legittimazione incrociata: la legittimazione scientifica della tesi teorica della mancanza di alternative allo stato di cose esistente, da parte della descrizione del funzionamento di fatto delle istituzioni e, inversamente, la legittimazione politica dello stato di cose esistente da parte della tesi teorica che non ci sono alternative alle reali, perché effettive, leggi del più forte, quali norme fondamentali ben più delle ineffettive carte costituzionali. E’ il realismo che ignora la normatività del diritto e specificamente delle costituzioni e finisce così per le­gittimare e asse­condare come ine­vitabi­le ciò che resta comun­que opera degli uomi­ni e di cui por­tano la responsa­bi­lità gli attori della nostra vita economica e politica.

      C’è poi un secondo tipo di realismo, che chiamerò realismo razionale – il realismo di Hobbes, di Kant, di Marx, ma anche, e soprattutto, delle costituzioni più avanzate – che di fronte alle ingiustizie e alle catastrofi determinate dal gioco “naturale” e incontrollato dei rapporti di forza elabora sul piano teorico e formula, normativamente, i rimedi razionali in grado di assicurare la dignità delle persone e la loro convivenza pacifica. Secondo questo realismo le alternative ci sono, sono offerte dalla tradizione stessa del costituzionalismo moderno quale sistema di limiti e vincoli ai poteri selvaggi dei più forti e dipende dalla cultura giuridica aggiornarle, dai movimenti e dalle forze democratiche rivendicarle e da una politica di progresso adottarle. Mentre la vera utopia, l’ipotesi più irrealistica, è l’idea che la realtà possa ri­manere a lungo come è: che potremo conti­nuare a basare le nostre demo­crazie e i no­stri spen­sie­rati tenori di vita sulla fame e la mi­seria del resto del mondo, sulla forza delle armi e sullo sviluppo ecologicamente in­soste­nibile del­le nostre economie. Tutto questo non può du­ra­re. E’ lo stesso pre­am­bolo alla Di­chiarazio­ne universale dei diritti del 1948 che stabi­li­sce, rea­listica­men­te e razionalmente, un nes­so di implicazione reciproca, quale solo una Costituzione della Terra e le sue istituzioni di garanzia possono oggi assicurare, tra pace e dirit­ti, tra sicurezza e uguaglianza e, dobbiamo oggi aggiungere, tra salvataggio della natura e salvataggio dell’umanità.   

       C’è una bella pagina di Kant sulla natura della pace e della guerra che vale ad illuminare il senso del realismo razionalista: la guerra, egli scrive in La pace perpetua, è un fenomeno naturale, che riflette lo stato di natura, mentre la pace è un fenomeno artificiale, che deve essere istituito dal diritto[14]. La stessa tesi era stata formulata da Thomas Hobbes: lo stato di natura è lo stato del bellum omnium, che può essere superato solo con il patto di civile e pacifica convivenza. Dunque, mentre la guerra è un fatto naturale, la pace è un fatto artificiale, che il diritto deve istituire e garantire con la messa al bando delle armi ed anche, aggiungeva Kant, con l’abolizione degli eserciti permanenti[15]. Ma la stessa cosa può dirsi per la democrazia, per l’uguaglianza degli esseri umani, per la loro dignità di persone, per tutti i diritti fondamentali. E’ naturale la legge del più forte. Sono invece artificiali quelle leggi del più debole che sono tutti i diritti fondamentali e le loro garanzie. E’ naturale la sopraffazione politica realizzata dai dispotismi illiberali. Sono invece artificiali le libertà fondamentali. Sono naturali l’ignoranza, le malattie, le povertà, lo sfruttamento del lavoro, le violenze criminali. Sono artificiali le garanzie dell’istruzione, della salute, della sussistenza, del lavoro e della sicurezza. E’ naturale, per effetto della mancanza di limiti allo sviluppo industriale ecologicamente insostenibile, la devastazione della natura. E’ artificiale il divieto di emissioni di gas serra e il demanio planetario diretto a sottrarre i beni vitali della natura alla mercificazione e alla distruzione. Il realismo razionalista altro non è che l’invenzione e l’istituzione degli artifici giuridici e politici, che devono tutti essere istituiti se si vogliono impedire e prevenire le prevaricazioni e le devastazioni naturali.

5. Il ruolo della cultura giuridica e politica: mostare che l’alternativa, il costituzionalismo globale, è possibile, doveroso, necessario, urgente – Il costituzionalismo globale non è dunque un’utopia. E’ al contrario l’unica risposta razionale e realistica allo stesso dilemma che fu affrontato quattro secoli fa da Thomas Hobbes: la generale insicurezza determinata dalla libertà selvaggia dei più forti, oppure il patto razionale di sopravvivenza, di convivenza pacifica e di mutuo soccorso basato sul divieto della guerra e sulle garanzie della vita.

       Ma c’è una differenza che rende le emergenze odierne, e in particolare il riscaldamento climatico e l’incubo nucleare, incomparabilmente più gravi e drammatiche rispetto a quelle contro le quali, in passato, l’umanità ha potuto formulare volta a volta i suoi solenni “mai più” costituzionali. La società naturale dell’homo homini lupus ipotizzata da Hobbes è stata sostituita da una società di lupi non più naturali, ma artificiali – gli Stati e i mercati – dotati di una forza distruttiva incomparabilmente maggiore di qualunque armamento tradizionale. Diver­samente da tutti gli orrori del pas­sato, perfino dalle guerre mondiali e dai totalitarismi, la ca­tastrofe ecologica e quella nucleare sono non solo più gravi, ma anche ir­reversibili: c’è infatti il pericolo, per la prima volta nella storia, che si acquisti la consapevolezza della necessità di cambiare strada quando sarà troppo tardi.

        Se questo è vero, ai giuristi spetta un compito insostituibile. Le costituzioni rigide hanno disegnato il dover essere del diritto. Hanno imposto limiti e vincoli ai poteri selvaggi dei più forti. Hanno preso posizione, come ha fatto l’art. 3, 2° comma della Costituzione italiana, contro la realtà degli ostacoli che di fatto limitano la libertà e l’uguaglianza delle persone. Hanno indicato orizzonti e progetti alti, difficili ma possibili, alla politica e alle lotte sociali. Ed hanno perciò capovolto l’antica funzione sociale del diritto, della giurisdizione e della scienza giuridica: non più la mera conservazione, bensì la trasformazione dell’assetto dei poteri e delle relazioni sociali, in attuazione dei principi in esse stabiliti. Di qui un ruolo e anche un fascino nuovi del diritto e della cultura giuridica, chiamata alla critica della realtà esistente e alla progettazione della realtà futura.

       Certamente non possiamo né dobbiamo farci troppe illusioni sulle capacità di tutela e sul ruolo di progresso del diritto. Il garantismo, i diritti, le garanzie, i principi costituzionali sono le leggi dei più deboli, che hanno dalla loro parte la forza del diritto e delle costituzioni. I forti, tuttavia, hanno dalla loro parte la forza, cioè il denaro, la violenza, la prepotenza, la spregiudicatezza, la capacità di mistificazione ideologica, la totale disponibilità a violare, nei loro interessi, il diritto e i diritti ogni qual volta sia loro possibile. Ma questa è una ragione di più perché i giuristi prendano sul serio il diritto vigente e la loro stessa professione, la quale non consente di ignorare le divaricazioni tra il dover essere e l’essere effettivo del diritto, tra i diritti e i principi di giustizia positivamente stabiliti e le loro vistose violazioni in danno di miliardi di esseri umani. Proprio di fronte a queste violazioni, la scienza giuridica può svolgere un ruolo di svelamento, di critica, di delegittimazione e, soprattutto, di sollecitazione all’aggiornamento e all’attuazione del paradigma costituzionale. Sono questi gli scopi che mi sono proposto con il progetto di una Costituzione della Terra: mostrare anzitutto, anche con l’elaborazione di una sua bozza in 100 articoli[16], che l’alternativa è possibile; mostrare in secondo luogo che l’alternativa, se prendiamo il diritto e le costituzioni sul serio, è doverosa; mostrare in terzo luogo che essa è necessaria ed urgente perché, essa sì, è l’unica alternativa possibile a un futuro di catastrofi.

       In questa prospettiva, voglio concludere con una nota di ottimismo. Si sta manifestando una novità: il mondo è sempre più interdipendente. Sessanta anni fa eravamo, nel mondo, 2 miliardi di persone, ma ciò che accadeva dall’altra parte del pianeta restava per noi sconosciuto e in ogni caso irrilevante e indifferente. Oggi siamo quasi otto miliardi e tuttavia il mondo è assai più piccolo di allora: basti pensare al virus della pandemia, che è nato in Cina ma non conosce confini ed è dilagato in poche settimane in tutto il mondo. L’umanità è sempre più integrata, più fragile e, ripeto, più interdipendente: perché siamo tutti interconnessi; perché siamo tutti governati da poteri economici e finanziari globali; perché siamo tutti esposti alle stesse minacce e alle stesse emergenze che possono portare all’inabitabilità della Terra e all’estinzione dell’umanità.

       Questo vuol dire che per la prima volta nella storia esiste un popolo globale, perché interconnesso e perché unificato dalle medesime sfide e minacce globali. Non solo. Per la prima volta nella storia si sta manifestando un interesse pubblico e generale assai più ampio e vitale di tutti i diversi interessi pubblici del passato: l’interesse di tutti alla sopravvivenza, assicurato oggi dalle cure e dai vaccini e, domani, dalla messa al bando delle armi e degli eserciti e dalle garanzie dei beni comuni e dei diritti fondamentali di tutti, quali limiti e vincoli a tutti i poteri, sia politici che economici. E’ questa la grande, positiva novità generata dalle emergenze e dalle sfide globali: l’interdipendenza crescente tra tutti i popoli della terra, idonea a generare una solidarietà senza precedenti tra tutti gli esseri umani e a rifondare la politica come politica interna del mondo.

      Naturalmente il processo costituente di una Federazione globale basata su una Costituzione della Terra è destinato a incontrare ostacoli potentissimi: nella miopia del ceto politico, interessato a mantenere i propri piccoli poteri, e negli interessi dei grandi poteri economici e finanziari. Ma di fronte alle sfide e alle minacce che accomunano tutti, poveri e ricchi, deboli e forti – la Terra, dice un vecchio slogan, è per tutti l’unico pianeta che abbiamo – un risveglio della ragione è possibile. Alla domanda qual è il soggetto costituente di questo processo possiamo rispondere che esso è il popolo della Terra; e che le sue avanguardie sono i soggetti deboli, vittime delle violazioni – sempre più massicce e sempre più visibili, scandalose e intollerabili – dei diritti fondamentali di cui essi, come tutti, sono titolari.


[1] G. Azzariti, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere? Laterza, Roma-Bari 2013. La domanda è stata recentemente ripresa da Id. (a cura di), Il costituzionalismo democratico moderno può sopravvivere alla guerra? Editoriale Scientifica, Napoli 2022.

[2] G. Azzariti, Il costituzionalismo moderno cit., p. 22.

[3] Ivi, p. 8.

[4] Ivi, pp. 8 e 9.

[5] “Il collegamento tra Stato e costituzione è un dato che ha condizionato lo sviluppo del costituzionalismo moderno” (G. Azzariti, Il costituzionalismo moderno cit., p. 15).

[6] Dottrina della costituzione (1928), tr. it. di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984, § 1 p. 15.

[7] C. Schmitt, Il custode della Costituzione, (1931), tr. it. di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1981, e III, § 4, p. 241. “La costituzione”, prosegue Schmitt, vale a “dare all’autorità del presidente del Reich la possibilità di unirsi direttamente con questa volontà politica generale del popolo tedesco e proprio perciò di agire come custode e difensore dell’unità costituzionale e della totalità del popolo tedesco” (ivi, p. 242).

[8] Ivi, II, § 1, a), p. 135. Il “presupposto fondamentale di ogni democrazia”, scrisse Schmitt, implica “l’assioma che la minoranza risultata in minoranza voleva soltanto il risultato elettorale (non la sua volontà particolare) ed abbia perciò aderito alla volontà della maggioranza come alla sua propria volontà” (ivi, II, § 1, a], p. 134); giacché “lo Stato è un’unità indivisibile e la parte messa in minoranza non è in realtà violentata e costretta, ma è ricondotta alla sua vera volontà” (ivi, III, § 2, p. 221). “Con la parola ‘identità’”, aveva scritto Schmitt in Dottrina della costituzione, cit., § 17, III, p. 308 “è indicata l’effettività dell’unità politica del popolo a differenza di tutte le eguaglianze normative, schematiche o fittizie. La democrazia presuppone… un popolo in sé omogeneo, che ha la volontà di esistere politicamente”. E’ poi inevitabile che questa supposta identità e unità politica del popolo si incarnino nella persona e nella volontà di un capo: “Il presidente del Reich è eletto da tutto il popolo tedesco” ed è perciò in grado “di produrre contro il parlamento un’unione diretta con i cittadini elettori… Egli è idealmente raffigurato come un uomo che al di là dei limiti e dell’ambito delle organizzazioni e delle burocrazie di partito unisce a sé la fiducia di tutto il popolo” (ivi, § 27, III, 4, p. 459).

[9] “La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici è la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind)… Non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo… Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde)… per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo ‘disimpegnato’ e perciò ‘imparziale’” (C. Schmitt, Il concetto di politico [1932] tr. it. in Id., Le categorie del politico, a cura di G. Miglio e di P. Schiera, Il Mulino,Bologna 1972, pp. 108-109); e questo vale anche “all’interno di uno Stato”, quando “i contrasti fra i partiti politici sono divenuti ‘i’ contrasti tout-court” e allora “diventano decisivi per lo scontro armato non più i raggruppamenti amico-nemico di politica estera, bensì quelli interni allo Stato” nella forma della “guerra civile”(ivi, p. 115); e più oltre, ivi, pp. 116-117: “I concetti di amico, nemico e lotta acquistano il loro significato reale dal fatto che si riferiscono in modo specifico alla possibilità reale dell’uccisione fisica… La guerra non è dunque scopo o meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto”.

[10] Rinvio, sulla necessità di questa espansione del costituzionalismo rigido, ai miei Costituzionalismo oltre lo Stato, Mucchi, Modena 2017, La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale, Laterza, Roma-Bari 2021, cap. VIII e Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio, Feltrinelli, Milano 2022.

[11] Mi limito a ricordare T. Hobbes, Leviatano, con testo inglese, Leviathan del 1651 a fronte, a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2001, cap. XXI, § 8, p. 351; J. Locke, Due trattati sul governo. Secondo trattato, (1790), tr. it. di L. Pareyson, Torino, Utet, 1969, cap. II, § 14, p. 248: I. Kant, Per la pace perpetua (1795), in Id., Scritti politici di filosofia della storia e del diritto, tr. it. di G. Solari e G. Vidari, Utet, Torino 1965, edizione postuma a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, sezione seconda, p. 297; G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1821), tr. it. di F. Messineo, Laterza, Bari 1954, §§ 333 e 334, pp. 280-281.

[12] E’ forse superfluo precisare che questa tesi non è contraddetta dall’attribuzione dei diritti politici ai cittadini – o meglio ai residenti – dei diversi Stati e, più in generale, delle diverse circoscrizioni elettorali entro le quali tutti sono chiamati a votare per i loro governanti.

[13] Il costituzionalismo moderno può sopravvivere? cit., p. 35.

[14] “Lo stato di pace tra uomini assieme conviventi”, scrisse Kant, “non è affatto uno stato di natura (status naturalis). Questo è piuttosto uno stato di guerra, nel senso che, se non vi sono sempre ostilità dichiarate, è però continua la minaccia che esse abbiano a prodursi. Dunque lo stato di pace deve essere istituito” (Per la pace perpetua, cit., Sezione seconda, p. 291). A tal fine occorre pertanto “esigere dagli uomini… che essi sentano il dovere di rendere la guerra, il più grande ostacolo della moralità, l’eterna nemica del progresso, anzitutto sempre più umana, poi sempre più rara, da ultimo abolirla affatto come guerra di aggressione, per foggiare una costituzione che per sua natura, senza infiacchirsi, fondata su puri principi di diritto, possa progredire costantemente verso il meglio” (I. Kant, Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, [1798], in Id., Scritti politici cit., § 10, p. 228).

[15] I. Kant, Per la pace perpetua, cit., sezione I, § 3, p. 285: “‘Gli eserciti permanenti (mi­les perpetuus) devono col tempo interamente scompa­rire’. E ciò perché minacciano inces­santemente gli altri Stati con la guerra, dovendo sempre mostrar­si armati a tale sco­po, ed ecci­tano gli altri Stati a gareggiare con loro in quantità di arma­menti in una corsa senza fine: e sic­come per le spese a ciò oc­correnti la pace diventa da ultimo an­cor più oppressiva che non una guerra di bre­ve durata, così tali eserciti permanenti diven­tano essi stessi la causa di guerre ag­gressive, per liberar­si da questo peso. A ciò si aggiunga che assoldare uomini per uccidere e per farli uccide­re è, a quel che sembra, fare uso di uomini come di semplici mac­chine e di stru­menti nelle mani di un altro (dello Stato), il che non può conciliarsi col diritto del­l’umanità nella propria perso­na”. Questo “far uso di uomini come… strumenti nelle mani di un altro”, in violazione della prima massima della morale, fu da Kant stigmatizzato ancor più duramente l’anno successivo, in un passo dei Principi metafisici della dottrina del diritto (1797) in Id., Scritti politici cit, § 55, pp. 535‑536: “Quale diritto ha lo Stato di servir­si dei suoi pro­pri sudditi per muover guer­ra ad altri Stati, di impiegare e di met­tere così in gioco i loro beni e anzi la loro vita stes­sa?… Questo diritto” risponde Kant, altro non è che  il “diritto di poter fare del suo (della sua proprietà) tutto ciò che si vuole”, cioè l’assurda pretesa del sovrano di ridurre i “suoi propri sudditi” a una “sua proprietà inconte­stabile […] Come dun­que si può dire delle piante (per esempio del­le patate) e de­gli animali domestici che essi […] si possono ado­perare, con­sumare e distrug­gere, così sem­bra che si possa attri­buire al po­tere su­pre­mo dello Stato, al sovrano, il diritto di condurre i suoi sud­diti… alla guerra come alla caccia, al combat­timento come a una partita di piacere”.

[16] E’ la bozza riportata in appendice a Per una Costituzione della Terra cit., pp. 149-197. L’ho scritta, su invito del Comitato esecutivo dell’associazione “Costituente Terra”, per facilitare il dibattito e sollecitare, a partire da un testo base, modifiche o integrazioni. Essendo il frutto di una riflessione teorica sul “dover essere” di una sfera pubblica all’altezza delle sfide globali, la bozza, come scrivo nella Relazione, ivi, p. 140, si caratterizza per la radicalità di molte sue norme: dalla giustiziabilità delle lesioni delle libertà fondamentali ad opera di regimi dispotici alla garanzia dei diritti alla salute, all’istruzione e alla sussistenza di tutti gli esseri umani, dalla cittadinanza universale all’abolizione delle armi e degli eserciti, dalla creazione di un demanio planetario a tutela dell’ambiente all’istituzione di un fisco mondiale sui grandi patrimoni e sugli altissimi redditi in grado di finanziare le istituzioni globali di garanzia. 

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